Delibera n° 09/08
L’assemblea dell’Unione Triveneta dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati
riunita a Vicenza il 18.10.2008,
delibera:
L’Unione Triveneta dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati, letti i documenti dell’ Organismo Unitario dell’Avvocatura e dell’Associazione Nazionale Forense, verso i quali esprime adesione, propone, per l’eventualità in cui non si intendesse desistere dal progettato intervento legislativo, i seguenti emendamenti al Ddl n.. 1082 XVI legislatura, che sarà discusso al Senato (Stampato Camera 1441-bis approvato il 2.10.2008).
1) Art.27, secondo comma: modifica dell’art. 38 cod. proc. civ.
Con riferimento all’articolo, si osserva: può essere accettata l’anticipazione, a pena di decadenza nella comparsa di costituzione e di risposta per la proposizione dell’eccezione di incompetenza per materia e per valore e per territorio inderogabile. Quello che non si comprende è l’utilità ed il significato della nuova decadenza introdotta atteso che la competenza per territorio inderogabile, per materia e per valore sono comunque rilevabili d’ufficio sino alla prima udienza.
Si verrebbe a creare un nuovo “genere” di eccezione (di diversa natura per le parte ed il giudice, ovverosia in “senso stretto” per la parte ed in “senso lato” per il giudice) che aveva un senso nella precedente formulazione (in cui si operava un generale declassamento delle questioni sulla competenza da presupposto processuale di salvaguardia del giudice naturale a vizio meramente formale).
Se si decide di conservare l’innovazione appare necessario integrare la citazione con l’obbligo di specifico avviso sulle conseguenze della mancata contestazione.
Si propone pertanto la soppressione dell’art. 27, secondo comma. o che sia aggiunto in calce allo stesso: “Nell’avvertimento di cui al nr. 7 dell’art. 163 deve darsi avviso anche degli effetti derivanti dall’art. 38 cpc.”
2) Art.27, decimo: condanna alle spese.
Si sottolinea l’opportunità che l’accollo delle spese a carico della parte che abbia rifiutato una proposta conciliativa, qualora la domanda venga accolta in misura non superiore a tale proposta, riguardi le spese maturate dopo la formulazione della proposta.
E’ vero che nel testo approvato dall’aula è stato precisato che deve trattarsi di “proposta conciliativa tempestivamente formulata”, tuttavia la genericità di tale previsione non risolve affatto il problema, talché, onde evitare di favorire la parte debitrice, appare più pratico limitare le spese da porre a carico del creditore a quelle maturate dopo la proposta.
Peraltro, come è stato osservato, non è coerente un sistema che impone tali obblighi alle parti costituite ( ed in definitiva ricade quasi principalmente sull’attore) mentre si continua a dare scarsa valenza processuale alla contumacia.
Si propone pertanto che il primo comma dell’art. 91 sia così formulato:
(Condanna alle spese)
Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92.
3) Art.27, dodicesimo comma: responsabilità aggravata.
Fermo il consenso per il rafforzamento della responsabilità aggravata, l’operatività del relativo meccanismo dovrebbe essere rimessa all’iniziativa della parte interessata, in linea con le altre previsioni dell’art. 96, non comprendendosi la ragione, in un processo nella disponibilità delle parti, di una condanna d’ufficio. Eccessivo, generico e discrezionale appare il limite prefissato nel massimo (non superiore ad euro 20.000); meglio ancorarlo ad un criterio certo, quale le spese di lite liquidate.
Si deve, però, osservare come si introduca una sorta di sanzione pecuniaria senza collegamento ad una responsabilità oggettiva. Considerato che l’esperienza insegna che i casi di responsabilità aggravata sono nella pratica residuali, il tentativo di introdurre una sanzione sulla responsabilità aggravata appare in concreto di scarsa incidenza deflativa.
Si propone pertanto di sostituire le parole “anche d’ufficio” con le seguenti: “su istanza di parte” e di sostituire le parole “di somma non inferiore ad euro 1000, non superiore ad euro 20.000” con “di somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio delle spese liquidate”.
4) Art.27, tredicesimo comma: mancata contestazione dei fatti
Al primo comma dell’articolo 115 del codice di procedura civile sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: “nonché i fatti ammessi o non contestati”;”. Con riferimento all’art. si esprime perplessità sulla previsione per cui gli effetti della mancata contestazione riguarderebbero le sole parti costituite, lasciando al contumace un’inspiegabile posizione di privilegio. Appare pertanto opportuno dare adeguata rilevanza anche alla contumacia alla luce delle recenti Sentenze della Corte Cost. in materia di processo societario.
Infine è necessario integrare la citazione con l’obbligo di specifico avviso sulle conseguenze della mancata contestazione.
Si propone il seguente articolato come emendamento:
TITOLO V
Dei poteri del giudice
Art. 115 (Disponibilità delle prove)
Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati.
La contumacia comporta gli effetti della mancata contestazione dei fatti dedotti dalla controparte.
Nell’avvertimento di cui al nr. 7 dell’art. 163 deve darsi avviso anche degli effetti derivanti dall’art. 115 c.p.c.
Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.
5) Art.28, secondo comma: modifica dell’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ..
L’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., prevede che, all’esito della prima udienza, il giudice conceda alle parti, se richiesto, dei termini che pesano per complessivi 80 giorni, per l’integrazione del thema decidendum e del thema probandum.
La modifica approvata in prima lettura prevede che detti termini possano essere concessi solo in presenza di gravi motivi.
La previsione appare inaccettabile sia in questa, che nella precedente formulazione dei giusti motivi.
Non solo per fondate ragioni di principio che, a fronte di un malinteso potere direttivo del giudice, finiscono con il sacrificare il diritto di difesa delle parti (si pensi, per fare un esempio, alla necessità di rispondere, anche sotto il profilo istruttorio, ad eccezioni dedotte dal convenuto costituitosi in udienza, senza dover sottostare al rischio di un vaglio, da parte del giudice, della richiesta di concessione dei termini in questione), ma sopra tutto per incontestabili ragioni di proporzionalità ed irrazionalità nelle scelte del legislatore (gli atti introduttivi dell’attore e del convenuto non sono gravati nell’attuale sistema della previsione di preclusioni e decadenze).
Inoltre la novità complica il lavoro del giudice, che dovrebbe adempiere l’obbligo di motivazione sulla concorrenza dei “gravi motivi” o in ipotesi si tornasse al precedente testo “giusti motivi” per concedere o negare i termini ex art. 183, comma 6°; ma si rischierebbero diverse e soggettive interpretazioni sul territorio.
Pur tenendo in considerazione le ragioni che hanno portato il Governo a tale modifica deve essere segnalato il grave difetto di proporzionalità tra il risparmio di 80 giorni nella durata di un processo che nella migliore ipotesi dura un paio d’anni in primo
grado e nel quale i termini difensivi concessi alle parti nell’intero giudizio non superano complessivamente (sino alla Sentenza) i 160 giorni e la costrizione delle parti a definire an e quantum del processo, in materie di per se complesse e variegate quali quelle civilistiche, rispettivamente con citazione e comparsa di risposta.
Invero influiscono negativamente sui tempi del processo: il tempo per poter fissare l’udienza di prove (l’esperienza ci insegna che oggi non viene rispettato il termine dei 30 giorni per il deposito delle ordinanze istruttorie così come previsto nell’art. 183 cpc), quello per ottenere l’udienza di precisazione delle conclusioni ed infine quello che il giudice impiega per poter scrivere e depositare le sentenze.
Nel concreto la modifica andrebbe a comprimere i poteri delle parti, risultando nei fatti pressoché ininfluente con i tempi necessari al giudice per definire il processo.
Concludendo non crediamo proprio che la novità possa avere risvolti positivi, essa avrebbe l’effetto di “tagliare con la scure” i diritti delle parti in nome di una malintesa e solo formale celerità, consegnando le parti in mano alla discrezionalità del giudice.
Si propone pertanto la soppressione dell’art.28, secondo comma.
6) Art. 28, sesto comma: introduzione dell’art. 257-bis cod. proc. civ..
Anche in questo caso si pone un problema di proporzionalità del mezzo rispetto al fine (accelerazione dei processi).
La stessa proposta di modifica appare muovere dalla consapevolezza della problematicità della materia, quando prevede che il giudice debba sentire le parti, tenere conto di ogni circostanza ed avere particolare riguardo all’oggetto della causa.
L’esperienza insegna che l’unico modo di assicurarsi la genuinità della prova per testimoni è la raccolta della stessa da parte del giudice, o comunque quanto meno nel contraddittorio delle parti.
Oltre tutto è da immaginarsi che le ricordate doverose cautele alle quali si intenderebbe subordinare la testimonianza scritta, relegherebbero tale mezzo alle fattispecie più semplici, che tuttavia sono inconfutabilmente quelle che dinanzi al giudice si risolvono in poche e brevi battute, con un risparmio effettivo del tutto sproporzionato rispetto al grave rischio di compromissione dell’affidabilità della prova.
Ecco dunque, anche in questo caso, il palese difetto di proporzionalità tra il mezzo progettato (una testimonianza scritta destinata ad applicazioni marginali, a meno di non voler gravemente compromettere il diritto delle parti all’accertamento della verità) ed il fine (un’illusoria accelerazione del processi).
Inoltre si deve segnalare che la norma appare in contrasto col vigente principio processualistico dell’unitarietà della prova.
Infine presumibilmente la durata delle cause sarà allungata dal tempo necessario per acquisire la prova con un necessario rinvio dell’udienza, dalla risoluzione delle contestazioni sulla corrispondenza delle dichiarazioni testimoniali ai quesiti proposti e spesso dalla necessità di sentire direttamente i testimoni per chiarimenti o specificazioni o per risolvere contrasti.
Inoltre non si comprende se il potere conferito all’ultimo comma della norma in questione sia esercitabile d’ufficio o ad istanza di parte, e come questo potere si raccordi con quello di disporre il confronto tra i testi di cui all’art. 254 c.p.c.. (norma che di per sé appare già sufficiente).
Si propone pertanto la soppressione dell’art. 28, sesto comma.
7) Art.29: introduzione del filtro di ammissibilità in Cassazione e previsione in spese di giustizia Art. 40.
Senz’altro condivisibile l’esigenza di alleggerire il notevole carico di lavoro gravante sulla Corte di cassazione, del tutto inadeguata appare la soluzione progettata, che desta diverse perplessità sotto più profili e così:
a) per la formulazione della norma, che appare eccessivamente generica (anche con riferimento alla violazione dei principi regolatori del giusto processo) e che, nel prevedere i casi di ammissibilità, risulta non essere coordinata, con ogni conseguenza, con le ipotesi di vizio o di mancanza di motivazione, salvo che, solo parzialmente, attraverso la discutibile previsione di cui infra;
b) perché appare prevedere un procedimento che si sovrappone a quello di cui all’art. 375 cod. proc. civ..
L’emendamento dell’opposizione approvato, poi, che sanziona con l’inammissibilità (meglio, con la non ammissibilità) il ricorso ex art. 360, primo comma, n. 5), nei confronti della sentenza di appello confermativa di quella di primo grado, appare del tutto inopportuno e foriero di gravi problematiche interpretative, innanzi tutto in quanto esporrebbe al grave rischio di affrettate conferme dell’iter logico-giuridico adottato dal primo giudice (che potrebbero essere anche agevolate dall’essere le stesse sottratte al controllo di legittimità) ed altresì perché la conferma della prima decisione di frequente si potrebbe accompagnare ad un mutamento (totale o parziale) della motivazione.
Tale ultima evenienza, oltre a porsi in conflitto con la ratio dell’innovazione (che apparirebbe fondata sulla scelta di sottrarre allo scrutinio di legittimità un iter argomentativo fatto proprio da due giudici diversi), lascerebbe gravemente pregiudicato il diritto di difesa di chi risultasse soccombente anche in appello in base ad una (parzialmente o totalmente) nuova motivazione, che finirebbe con l’essere del tutto incensurabile.
Si ribadisce che quello del ripensamento dell’accesso alla Corte di cassazione è un tema sicuramente importante, ma che per la sua delicatezza richiede un’adeguata ponderazione ed un maggiore approfondito dibattito.
Si propone pertanto la soppressione dell’art. 29, o quantomeno la soppressione dell’art. 360-bis secondo comma.
Appare parimenti incostituzionale la previsione di cui all’art. 40 in materia di spese di giustizia laddove all’art. 13 comma 2 bis introduce l’obbligo di pagamento oltre al contributo unificato di un importo pari all’imposta fissa di registrazione dei provvedimenti giudiziari prevedendo alla successiva lettera c l’esenzione dalla registrazione.
Si propone pertanto la loro soppressione
8) Art.29, terzo comma: abrogazione degli ultimi due commi dell’art. 624 cod. proc. civ..
Appare incomprensibile l’immotivata abrogazione del terzo e del quarto comma dell’art. 624.
Esse infatti consentono, nel caso di sospensione del procedimento esecutivo non reclamata, nonché disposta o confermata in sede di reclamo, di giungere direttamente all’estinzione del pignoramento senza dover svolgere l’intero giudizio di opposizione qualora esecutato ed esecutante concordino su tale opzione.
Si tratta dunque di previsioni deflative ed utili, il cui mantenimento appare opportuno.
Si propone pertanto la soppressione del terzo comma dell’art.29.
9) Art.32: procedimento sommario di cognizione.
Si manifestano forti perplessità in ordine all’introduzione di un nuovo modello (il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater), quanto meno perché esso difficilmente garantirebbe gli effetti deflativi auspicati, comunque implicando un’attività istruttoria e finendo con il differenziarsi dal rito ordinario nella sostanza solo per la teorica assenza delle memorie di cui all’art. 183 e per la decisione con ordinanza anziché con sentenza (anche alla luce della novità introdotta sul 183).
Si avrebbero dunque vantaggi solo teorici (una riduzione dei tempi meramente virtuale, posto che essa troverebbe un limite invalicabile nell’agenda del giudice, con la pratica conseguenza che per far funzionare il nuovo modello occorrerebbe riservarvi una corsia preferenziale, così ulteriormente rallentando i procedimenti ordinari; senza poi dimenticare la l’eloquentemente scarsa fortuna – che dovrebbe essere di monito – avuta dai modelli acceleratori d
i cui agli artt. 186 bis, 186 ter e 186 quater cod. proc. civ.) e svantaggi certi, quali un’ulteriore forma di sommarizzazione del processo e la creazione di un ulteriore rito.
Da rivedere, per le distorsioni che potrebbe causare, il 3° comma che prevede che quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiede un’istruzione “non sommaria”, il giudice ne dispone la separazione.
Si propone pertanto la soppressione dell’art.32. e comunque la sostituzione del terzo comma dell’art. 702ter con il seguente: “Quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiede una istruzione non sommaria, il giudice, con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’articolo 183. In tal caso al procedimento sommario si applicano le disposizioni del Libro II.”.
10) Art.37: disposizioni transitorie
Appare opportuno differire l’entrata in vigore e farla coincidere con quella del disegno di legge 1441quater. Scarsamente deflattivo, nell’immediato, sarebbe il riferimento ai giudizi instaurati dopo la data di entrata in vigore della presente legge con riferimento alle modifiche riguardanti i giudizi per cassazione (per i quali è opportuno prevedere il riferimento ai ricorsi proposti dopo la data di entrata in vigore della legge)
Si suggerisce di differire l’entrata in vigore dopo congruo periodo e farla coincidere con quella del disegno di legge 1441quater in discussione alla Camera in quanto lo stesso modifica altre norme del codice di procedura civile.
11) Art. 39: Delega al Governo in materia di mediazione e conciliazione
Il legislatore incorre in una confusione terminologica abbastanza frequente. I due istituti sono infatti diversi; infatti la mediazione permette alle parti l’opportunità di sviluppare un mutuo soddisfacimento nel risultato creando soluzioni che sono unicamente dirette a far incontrare i particolari bisogni delle parti. Il mediatore non esprime opinioni circa chi torto o ragione e tanto meno suggerisce una certa soluzione. La priorità del mediatore è invece quella di facilitare le parti nella discussione dei loro affari ed aiutarle a focalizzare i loro propri interessi guidandole verso il conseguimento di una soluzione vantaggiosa, giusta, duratura e soprattutto di pronta realizzazione: il ruolo decisionale è, dunque, in ogni caso esercitato esclusivamente dalle parti. Le parti vanno, invece, di fronte al conciliatore cercando una guida e decidono in relazione a quello che il conciliatore suggerisce.
Anche il ruolo degli avvocati è differente; nella mediazione il ruolo dei legali è più attivo in quanto devono contribuire a cercare di sviluppare soluzioni innovative per il raggiungimento della miglior soluzione. Nella conciliazione, i legali danno pareri e suggerimenti in relazione alla proposta fatta dal conciliatore.
La previsione di cui alla lettera p) andrebbe a minare la figura del conciliatore che non deve esercitare alcun potere in quanto non spetta a lui la risoluzione del conflitto; metterebbe in crisi il principio che l’esito della mediazione/conciliazione è un accordo volontario e la convinzione principale che muove le parti a ricorrere alla mediazione/conciliazione (che è quella per cui l’esecuzione dell’accordo è spontanea perché vantaggiosa per tutte le parti). Inoltre mina la riservatezza e segretezza del procedimento.
E’ poi opportuno prevedere che il procedimento di conciliazione possa avere una durata superiore ai quattro mesi ed aggiungere la previsione di precise incompatibilità per assicurare al conciliatore/mediatore la neutralità, indipendenza ed imparzialità (ad esempio quelle previste dal codice deontologico per l’arbitro e l’incompatibilità per il conciliatore/mediatore di risolvere la questione come arbitro)
Si propone pertanto la soppressione dell’art.39 terzo comma lettera p), di inserire la previsione di un termine maggiore ai quattro mesi, di inserire la previsione di incompatibilità
12) Modifica dell’art. 70 ter disposizioni di attuazione del codice di procedura civile
La norma tende alla semplificazione delle questioni riguardanti il rito cd societario ed afferma il principio della prevalenza del rito ordinario su ogni altro rito speciale. Sarebbe una semplificazione ed eliminerebbe molte questioni che finiscono per ritardare il processo.
Si propone la modifica dell’articolo 70-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, aggiungendo alla fine il seguente comma:
«I commi primo e secondo si applicano anche alle controversie previste dall’articolo 1 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni. In mancanza dell’invito previsto dal primo comma o dell’adesione di cui al secondo comma, il processo prosegue nelle forme ordinarie».
13) Abolizione del diritto di notifica spettante all’Ufficiale giudiziario nei casi in cui la notifica è eseguita dall’avvocato in proprio
Si segnala la necessità di abolire il diritto di notifica spettante all’Ufficiale giudiziario nei casi in cui la notifica è eseguita dall’avvocato in proprio, anche alla luce dell’entrata in vigore dell’art 9, comma 2, legge 488 del 1999, così come modificato dalla legge n. 342/00 (contributo unificato ). Il secondo comma elimina un problema di raccordo che crea un’ingiusta disparità di trattamento per gli avvocati che notificano in proprio nelle cause in cui vi è ammissione a gratuito patrocinio. Sul punto, in senso favorevole, si richiama il parere del Dipartimento Affari di Giustizia del Ministero all’Ufficio Legislativo del 18.06.2004 (prot. Nr. 3451/E).
Si propone pertanto l’inserimento del seguente comma
Art.61 quater (Esenzioni diritti e spese notifica)
Agli atti notificati ai sensi della Legge 21 gennaio 1994, nr. 53 dagli avvocati non si applicano i diritti di notifica di cui all’art. 10, così come determinati dall’art. 2 del D.M. 27 maggio 1994.
Agli atti notificati ai sensi della Legge 21 gennaio 1994, nr. 53 dagli avvocati si applica l’esenzione disposta dall’art. 131 del DPR 115/02; il Ministro di Giustizia è delegato ad emanare le disposizioni di raccordo.
14) Disegno di Legge 749
Si auspica, infine, che sia iniziato l’esame del Disegno di Legge 749 – Atto Senato (Delega al Governo per la istituzione e la regolamentazione della professione intellettuale di ufficiale giudiziario), sul quale ci riserva di far pervenire separate considerazioni.
Approvata dall’assemblea di Vicenza del 18.10.2008